Non c'era più nessuna certezza. Iniziava a presagire con amarezza di non poter fare nulla e, forse, di non aver mai fatto nulla.
In quel momento tutto il dolore e l'angoscia della sua solitudine scalpitavano dentro di lui con un moto caotico che muovendo dal profondo affiorava sulla sua pelle, calda e arrossata; nei suoi occhi scuri che erano immobili, contornati da lunghe ciglia nere, si scorgeva lo sgomento di un mondo che non si svela, e nasconde le sue verità. Riccioli umidi gli scendevano sul volto, sfuggendo alle dita delle calde mani che reggevano il capo, abbandonato senza forza. Non avvertiva le gocce di pioggia che, battendo su di lui, gli inumidivano la giacca grigia; le nuvole scurivano la luce e incantavano l'atmosfera che ampiamente catturava quel grande pianoro silenzioso e desolato.
Ma la sua confusione aveva raggiunto un'intensità tale che in un solo istante tutti gli assordanti pensieri si ammutolirono inspiegabilmente, come accade quando con un tuffo in acqua, di colpo, si elimina il chiasso di fuori.
Quindi egli, Damir, stava lì; seduto sul bordo della lunga strada. Poggiava i gomiti sulle ginocchia. Percepiva il sangue scorrere e irradiare ogni tessuto nel suo corpo compatto; il suo petto batteva a ritmo con la pioggia che in modo cadenzato si faceva un poco più fitta.
Fu forse un caso che in quella vasta solitudine, ad un tratto, comparve tra la foschia un piccolo furgone, che a poco a poco si avvicinava sotto le gocce. In un momento, senza una chiara motivazione, il giovane sentì la necessità di salirvi e fuggire da quel luogo. Non esitò a fermare il guidatore e chiese di farsi condurre, non aveva importanza dove. Salì e, sistemato accanto a quell'uomo gentile, non riuscì ad osservare il tramonto: chiuse gli occhi e si addormentò.
Quando si destò era già passato molto tempo: il furgone aveva attraversato interamente la distesa dalla quale lo aveva prelevato e durante la notte ne aveva percorso altre, altrettanto smisurate. Alle prime ore del mattino, arrestatosi a ridosso di una collina di betulle, il guidatore si apprestava ad abbandonarlo. Quindi Damir con riconoscenza ringraziò e si separò dall'uomo.
Ecco che nuovamente si trovò solo, ma questa volta si sentiva più sereno e già meno angosciato. Era riposato, e contemplava rapito la bellezza di quegli arbusti che davanti a lui si ergevano bianchi con chiome dorate. Non pioveva più ma l'aria era ancora nebbiosa; la luce del sole, filtrata dall'umidità con grande eleganza, raggiungeva dal lato il fogliame che brillava e generava un gioco di contrasti sullo sfondo antico dell'autunno.
Mentre si guardava intorno e meditava se addentrarsi tra le betulle, improvvisamente si accorse di avere lo stomaco contratto per la fame: una sensazione piacevole che gli ricordava di essere sano. In quel luogo di sola vegetazione, però, non avrebbe trovato nulla, perciò si decise a seguire un sentiero che lo avrebbe forse portato dove qualcuno lo avrebbe aiutato.
Così non si fermò per ore, sopportando chetamente la richiesta del corpo, e camminando osservava con interesse il nobile volo dei falchi, la carezza di vento che rendeva agitate le foglie timide, i ruscelli che con impertinenza scorrevano instancabili. Finalmente trovò una cascina abitata: lo accolse una bella ragazza dai lunghi capelli rossi. Le chiese del cibo. In quel luogo Damir trovò ristoro e calore, appagato dal piacere del pasto e dalla vista della giovane, i cui movimenti leggeri suscitavano intimamente in lui tenerezza non senza un'agitazione strana, quasi non potesse contenere il suo stesso istinto che cercava anch'esso un appagamento.
Dopo la breve sosta si allontanò dal podere con una bisaccia riempita di pane, formaggio e miele, offertigli gentilmente. Sul sentiero per la foresta pensò a lungo: la dolcezza dei modi della giovane evocava in lui immagini di fanciulle voluttuose, dai lunghi capelli profumati e dalla candida, languida pelle. Nelle sue fantasie tutto trovava completezza e lui, per un breve tempo, si sentiva felice. Da sempre, nella sua vita, cercava la bellezza ma riusciva a trovarla intera solo nella sua testa. Le sue esperienze quindi erano spesso insoddisfacenti perché esigeva sempre di più, sempre di meglio, perché il piano sensibile non superava mai quello ideale.
Camminava ora assorto e non badava a dove fosse diretto. Il cibo lo aveva rinvigorito e il suo forte fisico era adesso in forma. Dopo qualche tempo di cammino si fermò sul ciglio d'un fiumiciattolo, si inginocchiò e bevve un poco; spogliatosi, si bagnò con le mani il torace e la schiena. La sua pelle inumidita ritornava florida e radiosa, d'un colore pallido brillante. Si bagnò anche i capelli, che distese indietro con un movimento lento delle mani, scoprendo le sopracciglia distese e la giovane fronte. Restò un istante a sentire l'aria pungente per il freddo che risvegliava il suo spirito. Si rivestì e riprese la marcia con energia nuova.
Non aveva incertezze riguardo il cammino intrapreso, nessun rimpianto di aver abbandonato il passato. Poca importanza aveva il motivo per cui era evaso da quella realtà di prima, la causa occasionale; ma che egli non fosse soddisfatto e cercasse qualcosa di più, questo era davvero fondamentale.
Il sentiero lo portò quindi in salita, fiancheggiando un piccolo torrente, verso il picco d'un basso monte. Lungo il cammino Damir studiò gli arbusti e le piante che avrebbero potuto nutrirlo nei giorni successivi; studiò anche la forma delle montagne, la consistenza del terreno e la velocità che il sole aveva per viaggiare nel cielo.
Giunse finalmente dove le condizioni erano favorevoli per prepararsi per la notte: in un piccolo spiazzo sulla sommità del monte, dai cui si poteva osservare il paesaggio circostante. Mentre accendeva il fuoco ascoltava il silenzio di quel luogo: quella calma lo entusiasmava.
Ad un tratto si accorse del tramonto del sole:
Il suo viso rifletteva la luce di quel glorioso prodigio: illuminato da una candida doratura, stava estasiato verso lo spettacolo. Le morbide nuvole arancioni si mischiavano con la neve delle cime lontane, anch'esse colorate da una luce intensa; e il loro calore si diffondeva, attraverso l'aria tersa, fino a sfiorargli le guance pallide. E lui stesso ugualmente, anelante, era giunto fino a là, dove i colori nascevano e si mischiavano, tuttavia non riusciva a coglierne il segreto. "Oh, quanto sono limitanti la società con il suo linguaggio e il suo pensiero!"- ammise.
Con inarrestabile velocità venne il buio e adesso il viaggiatore, simile ad una creatura spaventata, si rannicchiò ai piedi d'un grande e materno albero e desiderò il calore del focolare di famiglia. Una malinconia che portava con sé note antiche gli penetrò nelle ossa e qualcosa in quel momento gli fu svelato. Era ancora presto, ma si addormentò tranquillizzato dal selvatico odore del muschio umido.
Iniziarono così a susseguirsi i giorni; e Damir, che non parlava più, rallentava i suoi pensieri imparando l'incanto delle sensazioni. Scopriva, come già supponeva prima, che la terra avesse così tanto da dargli che egli non riusciva a ricevere tutto quello che avrebbe potuto.
Giorno per giorno, quindi, gli si svelavano bellezze emozionanti; egli diventava parte di ciò che osservava e in quei momenti altro non esisteva che la percezione. Ma questo non gli bastava, non lo soddisfaceva del tutto.
Cominciò pian piano a sentirsi creatura silvestre, un tutt'uno con gli alti abeti, le linci veloci e i gufi; l'acqua brillante lo affascinava e guizzava nella sua vita esattamente come fa nei torrenti: egli, rapidissimo, correva sulle gambe e si nutriva con i frutti delle piante basse.
Ascoltava i rumori del bosco e con il tempo imparava a sentirli dentro di sé: i fruscii, i mormorii, i sussulti delle vite selvatiche suonavano anche nella sua anima: i suoi pensieri e le sue emozioni in continuazione gli parlavano. Imparava a riconoscere ogni sua risonanza e a prendersene cura con amore.
Quei luoghi gli offrivano incessantemente esperienze diverse e perciò egli, che imparava e cresceva a gran velocità, aveva finalmente abbandonato l'abitudine: ogni giorno era differente e ogni luogo, seppur conosciuto perfettamente, regalava sempre novità. Lo spazio e il tempo, pertanto, assumevano dimensioni inconsuete e permettevano finalmente a Damir di rendersi conto che esiste realmente molto di più rispetto a quello che aveva sempre creduto. Nulla più del mondo di prima gli apparteneva se non il ricordo, offuscato e disordinato.
La sua vita, adesso, assorbiva la luce dal brillante sole del mezzogiorno e ne ricavava un chiarore tale che a poco a poco i segreti che sempre lo avevano turbato si svelavano, come nodi che finalmente si sciolgono solo quando si smette di tirare e con dolcezza si lascia andare.
Una fredda mattina avvenne un prodigio straordinario.
Era sveglio da qualche tempo e attendeva l'alba con pazienza. Sedeva su una sporgenza di un alto monte, aveva viso e spalle completamente distesi. Era digiuno dal giorno precedente e sentiva tutto il suo sé come un contenitore vuoto.
A poco a poco l'aria si schiariva e l'oscurità si allontanava; le pupille di Damir stavano immobili come immobile era la sua mente. Ecco che improvvisamente le estremità delle sue scure ciglia iniziarono a imbiondirsi per i raggi di luce dorata, e in un istante le iridi degli occhi si fecero vitree per il contatto con il bagliore. Un forte chiarore che era emanato da dietro i picchi, impedito da angolature diverse, li sovrastava mutando tinta. Le montagne in controluce assumevano sfumature bluastre. Un silenzio interminabile colmava lo spazio.
Il cielo gli stava presentando uno spettacolo mai visto, ed egli per la prima volta riusciva a goderne interamente, osservandone la sua nitida completezza. Chetamente felice.
Lentamente qualcosa di inaudito e inspiegabile gli si diramò nel profondo e germogliando raggiungeva ogni particella sottile del suo essere. Provò allora un'emozione intensa a tal punto che ebbe un sussulto, un brivido lento gli scese lungo le braccia e la schiena, e rimase allora più immobile di prima, quasi granitico e indissolubile nella sua morbidezza.
Intimamente emozionato pianse a lungo, senza vergogna.
Damir in quel momento non sentì più bisogni: né di fuggire dal mondo, né di osservare e vedere di più. Il tutto gli si era mostrato e lui stesso se ne sentiva parte inscindibile. Non un dettaglio aveva notato, non un particolare, ma l'assoluto intero. La vita, la morte, la bellezza, il piacere e il dolore, adesso, avevano tutti un senso solo, infinitamente prezioso.
Egli allora poté alzarsi e muoversi liberamente nello spazio senza vincoli; poté addirittura scegliere di fare qualcosa, e farlo sul serio. Quasi come uscisse per la prima volta, dopo molti anni, da una piccola stanza buia.
Scelse allora di indirizzare il suo cammino verso quel mondo che con disprezzo un tempo aveva abbandonato. Con l'obiettivo di fornire una possibilità a chi come lui cercava qualcosa di più. Senza guastare il suo sviluppo, avrebbe vissuto nel mondo evitando di farsi risucchiare dalle sue modalità limitanti e stagnanti, e si sarebbe arricchito allo stesso modo, poiché aveva compreso che la bellezza è dovunque e costantemente in atto.
Così accadde.
Non sembra neppure più mortale l'uomo che vive fra beni immortali.